Che ne sarà dei cristiani d’Oriente?
Di Andrea Milluzzi
Articolo pubblicato sul settimanale “Jesus”
Sul mappamondo c’è una nazione che non ha nome né confini, dove i suoi abitanti non si conoscono e non parlano la stessa lingua.
E’ una regione molto vasta, che parte dall’Egitto e, risalendo il fiume Nilo arriva sulla penisola del Sinai, sconfina senza aver bisogno di permessi in Israele e Palestina e si espande come l’acqua quando si rovescia da un secchio ad abbracciare la Giordania, il Libano, la Turchia, la Siria, l’Iraq fino a toccare il lontano Iran.
E’ la nazione dei cristiani d’Oriente, un popolo misto, a volte rumoroso e molte altre silente. Ortodossi, cattolici e protestanti vivono in queste terre da ben prima dell’avvento di Gesù Cristo e hanno abbracciato la nuova religione che ancora esiste grazie ai primi evangelizzatori. A distanza di tanti secoli i cristiani d’Oriente sono rimasti un’esigua minoranza, orfani della forza dei loro avi, incapaci di fidarsi dei connazionali musulmani e impauriti da anni di guerre e persecuzioni. Si reputano gli ultimi custodi di una spiritualità perduta e sanno a chi imputare la colpa della loro lenta e costante erosione: l’Occidente.
“Già Eisenhower voleva creare Stati confessionali in Medio Oriente che legittimassero lo Stato ebraico di Israele” ragiona Abuna Eli nella sua parrocchia latina di Zarqa, in Giordania. Il regno hashemita è forse l’esempio più chiaro di come non servano violenza e soprusi per imporre la legge del più forte: “La monarchia rispetta i cristiani e nessuno si sogna di attaccarci, ma noi siamo sempre meno” continua Abuna Eli. “Anche io ho fatto richiesta di visto per l’Australia, due volte. – racconta Simone, volontario alla Caritas – Ma dopo l’11 settembre per noi arabi essere accolti in Occidente è diventata impresa difficile”.
Tutti i giovani che non hanno velleità di andarsene vivono all’interno della comunità: la famiglia è il punto di riferimento, la scuola è quella della parrocchia e il coniuge necessariamente cristiano. “Io ho amici musulmani e bevo con loro. Almeno, bevo con quelli di loro che bevono. – scherza George, custode e tuttofare di Abuna Eli – Ma non mi fido. So che basta un niente perché cambino volto, quindi terrò sempre le mie figlie lontane da loro” dice mentre le tre ragazzine lo ascoltano sulla porta della cucina.
La diffidenza, il sospetto, lo stereotipo sono pane quotidiano sulla tavola di cristiani e musulmani. Un rapporto deteriorato nel tempo e peggiorato con l’uscita di scena di dittatori come Hosni Mubarak o Saddam Hussein: “Quando c’era Saddam non avevamo libertà di parola ma nessuno si curava di chi fosse sciita, sunnita, ebreo o cristiano” ricorda Hussein, scrittore musulmano di Baghdad. Il fascino dell’antica Babilonia non è stato scalfito da bombardamenti, attentanti e abbandono. La luce è quella che respirava Hammurabi e i colori del deserto le imprimono una sorta di beatitudine che tanto stride con la cronaca.
“Il nostro Paese ha una cultura troppo grande perché finisca sepolta dalle macerie di questa guerra settaria. Ce la faremo a risorgere” afferma William Warda, giornalista e scrittore che insieme alla moglie Pascal, primo ministro cristiano e donna (nel governo Allawi, ndr) nella storia irachena, ha fondato l’associazione Hammurabi che si occupa dei soprusi contro le minoranze cristiane. I due vivono protetti da un alto muro di recinzione, sorvegliato da un checkpoint, poi un altro muro più basso unisce i cancelli delle villette di alcuni parlamentari accanto ai container per la servitù e i soldati di guardia. “Questa è la zona arancione, appena un po’ meno fortificata della zona verde dove ci sono i palazzi del governo e le ambasciate occidentali” ride divertita Pascal nel fare gli onori di casa.
Questa coppia di assiri cattolici ha vissuto gli anni della ribellione in esilio a Parigi. Tornati in patria dopo la caduta del regime hanno partecipato alla rinascita che però non è andata secondo i piani: “Gli americani hanno sbagliato. Sono venuti in Iraq senza conoscerlo e hanno pensato che tolto il tappo del regime tutto si sarebbe sistemato. Invece hanno fomentato le divisioni fra iracheni. Il nostro sbaglio – William trattiene il respiro per un attimo – è stato quello di non aver aderito alle milizie di al Sadr. Se avessimo ucciso qualche americano anche noi cristiani adesso forse ci terrebbero più in considerazione”.
I soldati statunitensi se ne sono andati dopo otto anni di occupazione in cui i cristiani sono stati etichettati come collaborazionisti perché appartenenti alla religione degli occidentali: “Con l’attentato alla chiesa di Nostra Signora della Salvezza ci hanno dichiarato guerra. Io sono stata fra i primi a documentare l’eccidio. E’ stato allora che ho smesso di fidarmi”. Era il 30 ottobre 2010 quando un commando dello Stato Islamico dell’Iraq fece irruzione nella cattedrale siro-cattolica di Karrada, quartiere centrale di Baghdad. In due ore i terroristi uccisero cinquantotto cristiani, ne ferirono ottanta e chissà quanti altri hanno spinto alla fuga.
Una violenza ben nota a Mosul, nel nord ovest dell’Iraq, dove i cristiani continuano a versar sangue sull’altare del fondamentalismo: “Se mi dessi appuntamento domani per portarmi via io mi farei trovare qui, puntuale” dice Nash, un caldeo di quarantasei anni scappato a Qaraqosh, villaggio al confine con il Kurdistan iracheno a una ventina di chilometri da Mosul. “Mio fratello è stato rapito due volte dalle milizie islamiche e abbiamo dovuto pagare milioni per riaverlo indietro. Le mie figlie non potevano andare a scuola tranquillamente perché nel tragitto poteva succedere di tutto e alla fine ci hanno fatto capire che dovevamo lasciare la nostra casa e il nostro terreno perché lo volevano loro. Come potevamo continuare a vivere con i musulmani?” chiede Nash.
La caduta di Saddam ha liberato pratiche sopite da tempo e ha permesso all’anarchia di regnare indisturbata. Così moltissimi cristiani senza armi e senza protezioni hanno abbandonato le città irachene per rifugiarsi all’estero o in Kurdistan, che garantisce alle minoranze perseguitate una casa, un lavoro e soprattutto una vita tranquilla. Molti di loro vorrebbero prima o poi tornare indietro, molti altri hanno perso le speranze: “Un bambino crescerà seguendo quello che gli è stato insegnato. Questo Iraq sarà l’Iraq del futuro” sentenzia George, un anziano cristiano che dopo aver combattuto tutte le guerre del partito Ba’th ha dovuto rifarsi una vita nell’anonimato offerto dai curdi.
Lo stesso paesaggio e lo stesso calore curdo si ritrovano a poche centinaia di chilometri di distanza, tanto che non sembra di aver oltrepassato il confine fra Iran e Iraq. A sottolineare il contesto totalmente diverso arrivano le divise dei guardiani della rivoluzione e quella sensazione di costante controllo, effetto della tensione su cui il regime degli Ayatollah basa il potere da più di trent’anni. “Gli iraniani passano il tempo a osservare le vite degli altri. Siamo diventati i controllori di noi stessi, abbiamo rubato il lavoro al regime” ironizza Reza, ventiseienne di Tabriz, seconda città dell’Iran, crocevia di storia e rivoluzioni e crogiuolo esplosivo di civiltà ed etnie diverse. Qui vivono turchi, azeri e armeni con conti aperti fra loro da circa un secolo che a volte cercano di saldare: “Qualche anno fa i turchi hanno provato a sfondare il muro della parrocchia. Il mio predecessore ha chiamato i poliziotti che, dopo aver respinto l’aggressione, gli hanno dato una pistola per difendersi. Adesso ho io quella pistola e non mi vergogno a dire che sono pronto ad usarla” racconta padre Vaghinagh, il prete armeno di Tabriz.
In Iran vivono circa sessantantamila cristiani su una popolazione di settanta milioni. Una differenza schiacciante, amplificata dal fatto che nella prima Repubblica islamica al mondo il Corano non è solo guida, ma anche legge. “Noi cristiani non subiamo persecuzioni, né siamo oggetto di violenze. Ma se la Guida suprema Alì Khamenei dovesse pronunciare la parola ‘Jihad’ in pochissimo tempo nessuno di noi rimarrebbe in vita” spiega Vaghinagh. Un cristiano in Iran non potrà mai ricoprire ruoli di vertice negli uffici pubblici, sposare un musulmano senza prima convertirsi né sperare in una comunità in espansione, poiché gli spazi sono delimitati e controllati. Ne è un esempio il pellegrinaggio che ogni anno riunisce gli armeni a Gare Chelisa, la chiesa nera di San Taddeo, una delle chiese più antiche del Cristianesimo. Sulle valli ai piedi di monti biblici, come l’Ararat che si vede in lontananza, spuntano tende, barbecue e addirittura qualche stereo: uno strappo alla regola che per tre giorni permette agli armeni di essere padroni delle loro azioni. “E’ l’unica occasione che abbiamo per vivere come vorremmo. Per noi che ci sentiamo stranieri a casa nostra è l’occasione per liberarci dai problemi” afferma Melik, giovane tecnico informatico di Tabriz.
Sulle mura di ingresso della chiesa i ritratti di Roullah Khomeini e di Alì Khamenei impongono l’attenzione su chi comanda, mentre i funzionari del regime, invitati forzati, controllano che non si organizzino pratiche rivoluzionarie. “L’uomo in genere ha paura di Dio e della legge. In Iran queste due cose coincidono” sentenzia padre Ratevosian, vescovo di Tehran. Gli armeni coltivano uno spiccato senso comunitario perché vittime del genocidio turco del 1915 che ha cementificato lo spirito di appartenenza ad una minoranza: “Questa è una comunità chiusa che si ritrova ogni anno per contarsi. Non ho un gregge di fedeli, ho un branco di nazionalisti” si lamenta il vescovo.
Ancora più minoritari di loro sono gli assiri ortodossi che non arrivano a diecimila in tutto l’Iran: “La nostra dinastia è scomparsa 600 anni prima di Cristo ma continuiamo a chiamarci assiri. Non abbiamo più una terra, né una nazione, ma come potrebbero mai distruggerci? Comunque non è importante, perché io non dico di essere un assiro, io so di essere un cristiano” afferma sicuro Jan mente fa colazione con sua moglie Clara nella loro casa di Tehran. Non ci sono molti motivi per restare qui, soprattutto se sei un cristiano: “Le nostre figlie vivono in California e spesso ci dicono di raggiungerle. – racconta la coppia – Ma cosa potremmo fare in un altro Paese alla nostra età? In Occidente diventeremmo cristiani come tutti gli altri, lontani dalla fede e interessati solo al lavoro e al denaro. Qui possiamo mantenere la nostra identità e tramandare le nostre radici”.
In Iran chi si converte si macchia del reato di apostasia per cui è prevista la pena di morte e molti evangelici che fanno proselitismi nelle loro case e diffondono Bibbie di nascosto finiscono in prigione. “Se nel 1978 (l’anno precedente alla rivoluzione islamica, Ndr) in questo Paese c’erano otto milioni di Cristiani su quaranta milioni di abitanti e oggi ce ne sono sessantamila su settanta milioni ci sarà pure un motivo, no?” domanda sarcastico Don Franco, parroco dell’ambasciata italiana, che vive a Tehran da più di quaranta anni.
Molti iraniani scelgono la Turchia come meta per le vacanze perché non hanno bisogno del visto e perché le donne non indossano il velo e bere alcolici non è proibito. Il paradosso è che i turchi hanno iniziato a pensare che il loro Paese stia prendendo esempio dalla vicina Repubblica Islamica. “Nei suoi primi due mandati Erdoğan non nominava mai l’Islam, adesso lo fa sempre e si è pure messo in testa di costruire la moschea più grande del mondo” dice frate Paolo, un francescano italiano ad Antakya. “E’ vero che adesso c’è più libertà rispetto a prima perché in qualche modo riusciamo a costruire nuove chiese e a uscire un po’ più allo scoperto. Se il governo ha allentato le maglie però, lo ha fatto soprattutto per dar potere al partito islamico di Erdoğan” continua Paolo. La Turchia ha decretato la restituzione dei beni confiscati alle comunità cristiane nel passato, ha invitato i cristiani emigrati a rientrare e ha prospettato la possibilità di dare cittadinanza turca ai cristiani siri in fuga dalla guerra siriana. Aperture ed ammiccamenti verso la minoranza cristiana, che con sole centoventimila persone non è che lo zero virgola qualcosa dei turchi, che interessano i leader della comunità ma lasciano dubbiosi chi vive lontano dai palazzi di Istanbul. “Ci sono riforme in programma, fra cui anche una legge per le minoranze. Aspettiamo fiduciosi di vederle perché, anche se con dei limiti, questo è il miglior governo degli ultimi anni” assicura Niko Manginas, che lavora al patriarcato greco-ortodosso.
“E’ un governo ipocrita che vuole solo islamizzare la società. Per questo abbiamo occupato Gezi Park e siamo scesi in piazza ovunque” ribatte Noura da Vakıflı Köyü, l’ultimo villaggio armeno di tutta la Turchia. A Vakıflı Köyü vivono circa centocinquanta armeni che possono parlare la loro lingua e che non hanno bisogno di null’altro di quello che hanno qui: una casa, una chiesa e dei campi da coltivare. “Questo è l’ultimo villaggio armeno rimasto dei sette della montagna del Moussa Dagh. Purtroppo non ci sono più giovani disposti a vivere qui e molti se ne sono andati a Istanbul” racconta Panos, ottantuno anni ma un’energia da trentenne con una memoria di ferro.
Questo borgo in cima alla collina che sovrasta Samandag è al centro della penisola di Hatay, la cui capitale è Antakya, l’antica Antiokya, il primo luogo dove i seguaci di Gesù furono chiamati cristiani. Adesso Antakya è la città più multireligiosa della Turchia (oltre a chiese e moschee c’è anche una sinagoga) e allo stesso tempo è il punto di passaggio di molti dei jihadisti che vanno in Siria a combattere. Le chiese cattolica e ortodossa riescono a coesistere tranquillamente con i musulmani, ma hanno maggiori problemi con evangelici e protestanti, due realtà cristiane molto giovani e formate spesso da musulmani convertiti al Cristianesimo: “Avevo venticinque anni quando ho deciso di seguire la chiamata di Dio. Ho dovuto lasciare i miei genitori e la mia città, Dyarbakir, dove i musulmani non volevano più che vivessi. Ho perso una famiglia, ma Dio me ne ha data una più grande” racconta Elmar che vive ad Antakya insieme al marito Abdullah, anche lui di Dyarbakir e anche lui convertito. La missione di questa coppia è “convertire altre persone per renderle felici come noi. Non siamo come gli infedeli (cattolici e ortodossi, Ndr) che pensano che basti andare in chiesa la domenica per essere cristiani”. Il proselitismo che evangelici e protestanti possono fare ad Antakya sarebbe pura utopia a Trabzon. Diventata famosa per l’assassinio di Don Andrea Santoro nel 2006, questa città di confine ultranazionalista ha respinto quasi tutti i cristiani che accoglieva e quelli rimasti hanno deciso di rintanarsi nelle loro case. E’ così che nell’agosto 2013 la basilica bizantina di Santa Sofia è stata convertita in moschea e i suoi affreschi grattati o coperti: “La Turchia riconosce le minoranze greca, armena, curda e siriaca ma non sa cosa significhi essere cattolico o ortodosso, Ufficialmente quindi noi cattolici nemmeno esistiamo” spiega sconsolato padre Antoine, parroco per il periodo estivo della chiesa che fu di Don Santoro.
Questo viaggio ripercorre i luoghi originali del Cristianesimo e a volte ritrova i nomi e l’atmosfera di duemila anni fa, come a Deir Abu Hinnes, dove gli antichi cristiani non se ne sono mai andati. Quattordicimila persone, quasi tutte copte ortodosse, vivono in questo villaggio dell’alto Nilo in Egitto: “Pochi giorni prima che Mubarak cadesse il governo ha provato a cambiare nome al villaggio e aprirlo ai musulmani. Tutti noi abbiamo protestato e così hanno rinunciato” ricorda Helal, archeologo e diacono della chiesa. Tutto è orgoglio e trincea qui, ai confini del tempo. Deir Abu Hinnes offre uno spaccato di miseria e tranquillità: non si vedono macchine e gli abitanti si muovono in silenzio, dormono fuori dalle case e condividono quel poco che hanno, frutto del lavoro agricolo sulle sponde del fiume, degli allevamenti di capre e mucche e degli aiuti alimentari dell’Onu: “Il governo non si occupa di noi perché siamo cristiani” spiega Mena, ventiquattrenne ingegnere tornato qui per l’estate.
Una vita comunitaria, un’autosussistenza e soprattutto la sensazione di sicurezza perché lontani dai musulmani: “Nei villaggi vicini, misti, i cristiani sono continuamente minacciati e le figlie costrette a sposarsi con i musulmani. Il monastero di Saint Veni, poco lontano da qui, è stato attaccato nel 2008 e tre monaci picchiati a sangue”. L’Egitto del 2012 è l’anteprima del caos che un anno più tardi cambierà di nuovo le carte in tavola nel travaglio del post rivoluzione. I fratelli musulmani sono al governo e Muhammed Mursi ha appena giurato davanti alle telecamere. Non è il cambiamento voluto dai cristiani: “Io sono una fan di Mubarak. Con lui si stava bene, con i Fratelli Musulmani non lo so. Magari loro sono solo in cerca di vendetta” dice Silvana, una ventenne copta di Shoubra, quartiere de Il Cairo dove vivono i cristiani della classe medio alta.
La condizione economica fa spesso la differenza nel decidere da quale parte stare: “Molti miei amici andavano sempre a piazza Tahrir e mi dicevano di andare con loro. – racconta Silvana – Io li capivo: loro sono poveri e non hanno nulla da perdere”. Ne sanno qualcosa i copti di Ezbet El Nakhal, quartiere poverissimo della periferia cairota. Qui abitava anche Mina Danial, il “Che Guevara dei copti” ucciso dai poliziotti nella manifestazione di Maspero del nove ottobre 2011, in quella che molti hanno definito come la prova generale di piazza Tahrir. Migliaia di cristiani copti scesero in piazza per chiedere la costruzione di una nuova chiesa ad Asswan, nel sud dell’Egitto, dove la precedente era stata distrutta in un attacco i cui colpevoli non sono mai stati trovati. La polizia aprì il fuoco e fra le ventotto vittime ci fu anche Mina. A casa loro, le due sorelle e il fratello di Mina conservano la sua camera come una reliquia e sulle pareti campeggiano le foto dell’attivista e del suo sorriso.
“Mina era migliore di me. – ricorda Yacoub, uno dei leader del movimento copto de Il Cairo – Io lotto per i diritti dei cristiani, Mina non faceva differenze fra noi e i musulmani. Diceva che eravamo una famiglia, quella dei poveri e degli svantaggiati”. Prima della rivoluzione che ha portato alla caduta di Mubarak l’attacco più devastante ai copti è stato alla Chiesa dei Santi di Alessandria d’Egitto (adesso riaperta con un muro di protezione, il metal detector e un museo memoriale all’interno) dove la notte di San Silvestro del 2010 un’autobomba provocò la morte di ventuno cristiani.
Gli effetti del disordine egiziano arrivano anche sulla striscia di Gaza. Un milione e mezzo di persone confinate in un lembo di terra lungo quaranta chilometri e largo sei, impossibilitate ad uscire dalle recinzioni israeliane e adesso anche da sud, dove i tunnel che permettevano il commercio illegale ma necessario di medicine, beni e persone con l’Egitto sono stati distrutti dai militari egiziani. Gaza è una prigione a cielo aperto e milleseicento prigionieri sono cristiani, principalmente ortodossi con una minoranza (centottantasei persone) cattolica della parrocchia latina di padre Giorgio. Argentino, ex giocatore di rugby e chitarrista, padre Giorgio è un giovane prete che condivide la sua missione con padre Mario, brasiliano. “Israele non vuole preti arabi nella striscia, così siamo tutti sudamericani. Ma da quando l’Argentina ha votato sì al riconoscimento della Palestina all’Onu, ogni volta che esco gli israeliani mi denudano per perquisirmi” si indigna padre Giorgio.
I cristiani di Gaza city vivono una condizione di doppia prigionia: come palestinesi devono subire le imposizioni di Israele e come cristiani devono muoversi nel territorio dell’Islam radicale di Hamas. “Da quando sono qui ne ho sentite di tutti i colori. C’è un ragazzo di quattordici anni che ha chattato con una ragazza musulmana. Niente di particolare, ma i fratelli di questa ragazza lo hanno costretto a diventare musulmano” racconta padre Giorgio. “A volte mi chiedo come fanno queste persone a rimanere cristiani, quando sarebbe molto più semplice convertirsi per essere accettati” riflette padre Giorgio. “La chiesa qui funziona come confidente, come rifugio e come banca” scherza Amin, un cristiano che vive nel Christian camp, un quartiere di rifugiati di Gaza city fra la Caritas e la Croce Rossa, dove Amin lavora: “Il salario medio è di mille-millecinquecento sheqel al mese (duecento-trecento euro, Ndr), ma c’è chi ne guadagna cinquecento e non riesce ad affrontare i costi della vita. E allora che fai? Ti rivolgi a padre Giorgio” spiega Amin.
In Cisgiordania, l’altra metà della Palestina, i cristiani vantano una situazione economica migliore e l’assenza di un fondamentalismo di governo. Sui luoghi della vita e della predicazione di Gesù Cristo si combatte la battaglia per il diritto all’esistenza di due popoli e due fedi diverse dal Cristianesimo: “Noi ci sentiamo palestinesi e come tali condividiamo con i nostri connazionali le umiliazioni di Israele”spiega padre Firas, un prete melchita di Zababdyeh, paese a quindici chilometri da Jenin, dove tremila dei tremilatrecento abitanti sono cristiani. I problemi però sono molti e ben visibili, a cominciare dal muro costruito da Israele: “Questa era la nostra terra e ne stiamo richiedendo solo il venti per cento. E pensare che noi arabi abbiamo accolto i primi ebrei che si rifugiavano qui dalle persecuzioni in Europa. Loro invece stanno spingendo i palestinesi ad andarsene, impedendoci di avere un commercio, di spostarci liberamente e di vivere in un Paese normale. Noi cristiani che in queste situazioni non riusciamo ad essere forti – conclude amaro padre Firas – siamo i primi ad andar via”.
I cristiani sono il quattro per cento della popolazione palestinese e questa proporzione si nota anche per le vie di Gerusalemme. I quartieri cristiani sono all’inizio della città vecchia, fra la porta di Jaffa e quella di Damasco, crocevia di turisti e di locali che animano il suq cittadino. Nella città che potrebbe essere esempio di convivenza fra popoli e fedi, tutto ciò che parla di Dio al contrario divide: “A me piace bere e una sera sono finito all’ospedale perché avevo esagerato, dove ho conosciuto un dottore simpatico con cui inizio a scherzare. Siamo diventati amici anche se lui è ebreo” racconta David che gestisce una paninoteca a conduzione familiare vicino a Damascus Gate. “Non mi piacciono gli ebrei perché, anche se ci danno un lavoro e una casa, vogliono comandare. Sono diversi da noi, noi stiamo sempre insieme, abbiamo famiglie numerose. Loro si accontentano di un figlio o due.” continua David che non risparmia critiche nemmeno ai musulmani: “Frequento i musulmani ma fuori da casa mia. Io sono libero, posso bere e le donne possono muoversi in casa mia tranquillamente. I musulmani questo non lo accettano. Quindi siamo amiconi, ma in piazza”.
Le tre comunità animano le strade di Gerusalemme in un frenetico evitarsi a vicenda e qualsiasi occasione è buona per contendersi gli spazi. Diversa è la situazione a Nazareth, dove gli israeliani non hanno voluto convivere con gli arabi e hanno costruito Nazereth Illit. La città storica è rimasta un feudo degli arabi israeliani che si devono difendere dall’accusa di essere traditori: “I palestinesi in Cisgiordania ci rinfacciano di vivere oltre il muro per avere condizioni migliori a costo di rinnegare le nostre origini. Io rispondo sempre che i cristiani abitano queste terre da duemila anni” afferma Abuna Elias, prete cattolico di rito romano di Nazareth. La convivenza con i musulmani, seppur accomunati dalla lotta contro Israele, va deteriorandosi: “Nel 2008 i musulmani volevano costruire una moschea accanto alla Basilica dell’Annunciazione, così sono iniziati degli scontri con i cristiani e io sono finito in galera” racconta Christian, un ragazzo di trentadue anni che ha scelto questo nome dopo aver riscoperto la sua fede in prigione. “Io so che noi cristiani abbiamo ragione perché non faremmo mai del male a nessuno, mentre nel Corano è scritto di uccidere e di temere Allah. Il nostro Dio non vuole essere temuto, vuole essere amato” esclama Christian che accalorandosi si accoda alla lista di tutti quei cristiani che in Medio Oriente vogliono avvisare l’Europa: “I musulmani vogliono conquistare l’Europa. Lo capirete quando saranno uno più di voi e pretenderanno il potere”.
In Israele esiste anche una comunità di ebrei convertiti al Cristianesimo. Sono circa seicento in tutto in Paese e “la maggioranza sono immigrati, ma ci sono anche alcuni ebrei israeliani convertiti” spiega padre David, il vicario patriarcale della comunità. Anche lui è un convertito e spiega quali sono le conseguenze più pesanti per chi compie questo passo: “Gli ebrei identificano i cristiani come autori dell’Olocausto, quindi chi si converte passa da vittima a carnefice. Così tutte le conversioni devono essere vissute in privato e spesso nemmeno la famiglia ne è a conoscenza: ci sono donne che vengono in parrocchia all’oscuro del marito e altri che vivono lontano dai genitori per poterci frequentare”.
Dall’Iran all’Egitto, da Israele alla Turchia i cristiani pagano il prezzo di essere una minoranza. In Libano però i cristiani sono ancora la maggioranza della popolazione, almeno formalmente. Nel Paese delle diciotto diverse confessioni riconosciute per legge (su quattro milioni e mezzo di abitanti) l’ultimo censimento risale al 1936 e ne risultò un rapporto di sei cristiani ogni cinque musulmani. Nel 1989 poi gli accordi di Ta’if stabilirono la spartizione a metà dei posti di potere, dai seggi del Parlamento ai ruoli da insegnanti nelle università. “Oggi i cristiani non sono più del 35%, ma senza di noi questo Paese non avrebbe senso di esistere. Quindi questo equilibrio precario va bene anche ai musulmani” sorride padre Jean, maronita di Beirut. Il Libano si divide per zone di influenza: al sud i musulmani sciiti, al nord i sunniti, sul Chouf i drusi e il monte Libano ai cristiani. Una divisione non scritta che dopo la guerra civile, quelle con Israele e l’inizio della rivoluzione siriana, si fa sempre più netta: “Ad Ain Ebel siamo millecinquecento cristiani, circondati da villaggi sciiti e a cinque chilometri dal confine con Israele. Chi altro potrebbe pensare a noi se non noi stessi?” riflette Elie, trent’anni e un pub da aprire a breve.
Il sud del Libano è territorio controllato da Hezbollah: “Noi cristiani siamo considerati traditori, perché quando Israele era qui (fino al 2000, ndr) era affiancato dall’esercito del Libano del Sud, comandato principalmente da cristiani. – ricorda Elie – Però nessuno si ricorda che quell’esercito fu creato a Beirut e che ci difendeva dai palestinesi che venivano a saccheggiare i villaggi”. Il Libano, tranne rare eccezioni, non è il Paese della convivenza interreligiosa. Qui si ragiona in termini di “noi” e “loro” e molto spesso ci si chiude nei ghetti come Ainjar, villaggio sul confine siriano abitato esclusivamente da armeni: “Noi siamo i discendenti dei combattenti del Moussa Dagh che si salvarono a Port Said (in Egitto, ndr) e poi fondarono Ainjar. Ci sentiamo armeni e abbiamo il dovere di conservare la nostra memoria” ricorda Vartan, lo “storico” del villaggio.
A pochi chilometri di distanza c’è Maasna, valico di confine fra Libano e Siria, e l’eco della guerra ricorda che l’ingombrante vicino sta vivendo la crisi più drammatica della sua storia. Quanto succede a Damasco ha ripercussioni su Beirut e da quando è cominciata la rivolta siriana il mondo musulmano si è ulteriormente polarizzato fra sunniti e sciiti con i cristiani come spettatori e a volte vittime di questo scontro.“Tutti hanno un parente che è rimasto in Australia dopo la guerra civile. E’ la nostra ancora di salvataggio se per i cristiani del Medio Oriente la situazione dovesse farsi pesante” riflette Natalie, che vive a Zgharta, paese poco distante da Tripoli, nel nord del Libano. Natalie e sua figlia Rebecca sono andate a Sidney a vivere i due anni necessari per ottenere la cittadinanza. La considerano una via di fuga se dovesse succedere quello che molti cristiani libanesi temono: la caduta della Siria nelle mani dei fondamentalisti islamici. Quasi tutti i cristiani in Siria hanno ripiegato nelle zone controllate ancora dall’esercito lealista, molti altri sono espatriati in Libano o in Occidente.
Politicamente, la linea dell’equidistanza cristiana è stata smentita dai fatti: non abbracciando la rivoluzione e dipingendo Bashar al-Assad come il difensore delle minoranze, le istituzioni e gran parte della popolazione cristiana siriana hanno fatto una scelta di campo. Solo adesso il Patriarca maronita, il cardinale Beshara al-Rahii esorta i cristiani a lavorare per la pace sia in Libano che in Siria andando a ricoprire “quel ruolo politico e culturale che la storia ci ha assegnato”. Rischia di essere un appello tardivo, quando la guerra interna all’Islam ha preso una deriva di estrema violenza amplificando il senso identitario e settario della comunità cristiana levantina, indecisa se darsi alla fuga o difendere gli esigui fortini che le rimangono
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