(22/07/2008 – 19:25)
Ogni volta che penso a Ivan, così come ogni volta che l’ho fatto in questi anni, la prima espressione che mi si affaccia alla mente è “fratello maggiore”. So che condivido con molti questa consapevolezza, ma per ognuno ha un significato diverso, e una ragione particolare, e
sento come un dovere il fatto di spiegarla.
Non solo per l’affetto che non ha bisogno di spiegazioni, come tra fratelli. E non solo per l’anno di differenza, o per il fatto che messi accanto sembravamo un ramo appoggiato ad un armadio a due ante.
Intendo una persona che trova sempre il modo giusto per parlarti; sa quando è il caso di tacere e quando intervenire, anche se non lo chiedi; che sa quando è il caso di incoraggiarti e quando al contrario deve contestarti anche duramente, se vede che sbagli, ma senza nasconderti l’affetto che sta dietro le critiche; e lo fa perché crede che, tutto sommato, con qualche aggiustamento, puoi riprendere la direzione giusta.
Un atteggiamento coraggioso che richiedeva, pretendeva, anche nei suoi confronti, senza sconti. Come quando mi chiese un parere su un suo articolo, che mi era piaciuto molto; e durante il mio commento mi interruppe, dicendomi “è inutile che mi dici quello che va bene, non
mi serve a niente; mi devi dire quello che non va”.
Non so perché, ma lui con me è stato sempre così. Non è facile dire quanto fosse inestricabile, e prezioso, l’intreccio di sincerità, quasi dura, e di dolcezza, con le quali faceva capire come la pensava, sul mondo in generale e su quanto facevo e gli dicevo. Erano scossoni salutari, ogni volta, di quelle potature che poi ti fanno crescere più forte. Di quelle che ti dà un fratello, appunto, che sa di essere arrivato prima di te a certe conclusioni, ad una consapevolezza
decisa, e sa che questo comporta la responsabilità di richiederla negli altri, questa consapevolezza, e di condividerla. E lo sa fare, sia con l’esempio che con il racconto. E anche con il piacere dell’esempio e del racconto; come i maestri, veri.
Tutto questo, per me, nonostante non si trattasse di episodi frequenti. Vite diverse, incontri non quotidiani, forse proprio per questo ancora più intensi. Da ripensarci per i giorni e i mesi
successivi, a lungo.
Un mese di Interrail, dopo la maturità, in giro per l’Europa come matti a parlare della costruzione delle nostre vite per i successivi cent’anni (almeno così speravamo), a qualsiasi ora del giorno e della notte; o cinque giorni alle Eolie, a Ginostra, l’anno scorso; a fare
lo stesso, ancora, incredibilmente, come allora, solo con un sacco più pesante sulle spalle, ognuno il proprio; e il suo era ricolmo di esperienze, e di saggezza. E le cene in terrazza. E ogni volta riscoprivo la passione nelle cose che faceva, faticosa (perché non nascondeva il prezzo delle scelte) e leggera al tempo stesso, come di chi sa che ha scelto di diventare quello che voleva e ci è riuscito, nonostante le difficoltà e le contingenze.
Quel suo modo di dire, ogni volta che stava per affermare qualcosa di deciso, “senza voler dare lezioni a nessuno”; quel modo di dire era la premessa più convincente per fermarsi a pensare alle sue parole; perché davvero non voleva dare nessun tipo di lezione, voleva solo condividere la propria visione del mondo; un’ulteriore manifestazione di generosità, tra le tante. E proprio per questo lo ascoltavi, e al di là delle opinioni, anche magari diverse, ti rendevi conto di quanto avesse ragione a mettere in evidenza quali fossero le cose importanti, e quanto fosse essenziale non perdersi in cortine fumogene, fosse anche solo per pudore, nel dire e nel fare quello che ognuno dice e fa.
Per tutto questo, ammesso che sia possibile, si deve cercare di dare un senso a questo dolore, e di portare Ivan con sé, ogni giorno. Ma per quanto mi riguarda non voglio che siano ricordi. Quelli non me li può togliere nessuno. Voglio che sia futuro; quello che gli è stato negato, ci è stato negato, ma che è possibile riprenderci, e che gli dobbiamo.
Non saranno altre cene, altri viaggi, altri racconti. Né i figli che, come noi, come diceva ridacchiando, avrebbero dovuto trovarsi nella stessa classe per potersi passare i compiti. Ma sarà comunque futuro.
Per la gratitudine, continuamente rinnovata, ogni volta che penserò a lui. E se solo riusciremo a metterci in gioco, ognuno come potrà, anche solo un poco di più del solito, cercando di avvicinarci alla sua irresistibile e dolcissima forza, vorrà dire che Ivan ci avrà fatto l’ultimo regalo, il più prezioso.
Di cui essergli grati, ancora una volta, per tutto il tempo a venire.
Francesco
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