Un anno fa è morto Ivan Bonfanti. Noi, che allora lavoravamo a “Liberazione”, non ce lo scorderemo mai quel giorno. Ivan era un giovane giornalista, aveva 37 anni, era follemente innamorato del suo lavoro. Era un tipo speciale, passionale, travolgente, molto sicuro di se. Non era uno che passava inosservato. Stava vivendo una storia d’amore molto grande, con Laura, che lavorava anche lei al giornale. Mi ricordo ancora lo scoppio tragico e innaturale del pianto dirotto di Laura, improvviso, incomprensibile. Laura è una donna dolcissima, dolcissima, ma non ti aspetti che pianga. Erano le tre del pomeriggio del 19 luglio, eravamo appena tornati dal pranzo e Laura ricevette quella telefonata tremenda, agghiacciante, credo da Dino, dal papà di Ivan. Ivan era andato a Vienna, per il matrimonio di un amico.
Era molto stanco perché aveva viaggiato, come fanno tutti i trentenni, guidando, per ore e ore, senza riposare, per guadagnare tempo, e poter fare più cose, sempre sicuro della sua invincibilità. In verità Ivan lo sapeva di avere un punto debole. Non so bene che cosa, una specie di flebite alla gamba, cioè un grumo di sangue o qualcosa del genere che gli si era formato nella vena e gli dava parecchio fastidio. Mi ricordo che qualche volta, quando giocavamo a pallone insieme, si doveva fermare perché la gamba gli faceva male. Ivan era anche un ottimo giocatore di pallone, un difensore centrale molto robusto e di classe, una volta si sarebbe detto un ”libero”. Era alto più di un metro e ottanta, atletico, muscoloso. Però quel grumo di sangue era pericoloso, e i dottori glielo avevano detto. Doveva stare attento e prendere delle pillole. Ma Ivan, come tutti i trentenni, se ne fregava. Quella mattina, se ho capito bene, credo dopo la cerimonia, mentre stava per andare a mangiare, il grumo si vendicò. Salì dalla gamba e finì al cuore e al cervello. Ivan fu stroncato da un embolo. Perse subito i sensi, morì in pochi minuti.
Perché vi racconto di Ivan Bonfanti? Perché nella storia del picciolo gruppo di giornalisti che ora è la redazione dell’Altro (e di tanti altri amici e compagni che sono a Liberazione) Ivan ha un ruolo importante. Dopo la sua morte mi sono accorto che lui era stato una figura decisiva nella mia formazione professionale. Anche se era molto più giovane di me. Era un po’ il simbolo dell’esperimento di giornalismo di partito, di sinistra, impegnato e liberale che portammo avanti a Liberazione per circa quattro anni, e che finì male. E’ stato una figura decisiva per due ragioni. La prima è il suo spirito anarchico. Proprio anarchico: non voleva governare e non voleva essere governato. La seconda è la sua feroce convinzione ambientalista.
Quando nel 2004 andai a dirigere Liberazione ero sicuro di essere un giornalista libero e innovatore. Venivo da una lunga storia di impegno e di lotte per l’autonomia del giornalismo, combattute all’Unità. Volevo rompere gli schemi antichi del leninismo che – assai di più di quello che sembrasse – dominava ancora la sinistra radicale ( e forse non solo quella). L’idea del giornalismo “organico” a un partito, e dunque subalterno e vincolato. Vincolato a una certa verità, cioè a una non verità. Pensavo di dover lottare con la redazione. E invece m trovai, a sorpresa, di fronte a una redazione che io mi aspettavo super-comunista e non lo era affatto. Era molto aperta, aveva voglia di discutere tutto, non credeva ai dogmi. Mi trovai in difficoltà, soprattutto nei primi mesi. Finì che il conservatore ero io, ero io che pretendevo qualche rispetto per le tradizioni e per alcune certezze (la storia del movimento operaio, una certa idea della lotta di classe, un punto di vista immobile delle relazioni internazionali). E la redazione mi strattonava e mi diceva che bisognava innovare di più. Io un po’ ero contento, un po’ ero prudente. Credo che il più spinto sulla linea del rinnovamento, e il più convinto della necessità di rimettere in discussione tutto, era Ivan. E per questo mi scontrai spesso con lui. Sul mediooriente, sull’ambientalismo, sul ruolo del partito.
Il primo grande scontro con lui – e con Stefania e Guido e qualcun altro – lo ebbi per via di una vignetta di Enzo Apicella che avevo pubblicato senza obiezioni e fu giudicata da molti antisemita. Io difesi Apicella, mi sembrava che fosse il mio dovere, e Ivan mi attaccò molto duramente, diceva che su certi principi non si può transigere, trattare, che il rischio dell’antisemitismo è il più grave delle conseguenze del dogmatismo. E poi mi ricordo che ancora qualche giorno prima che lui morisse, in riunione di redazione, polemizzammo in modo aspro, brusco, su una questione nella quale la necessità della difesa dell’ambiente – del mare in quel caso – entrava in conflitto con gli interessi di un gruppo di lavoratori. Io sostenevo che quando è in gioco l’interesse dei lavoratori quell’interesse va difeso comunque. Lui diceva di no, pensava che non fosse possibile ricostruire una politica di sinistra, nel terzo millennio, fondandosi solo sulle conquiste del novecento, e sulla certezza – falsa – che il movimento operaio possa restare in eterno un baluardo e un moloch.
Sono stati anni bellissimi quegli anni passati a Liberazione, e hanno cambiato tutti noi, e hanno cambiato le nostre idee, le certezze, i sentimenti. Questo giornale che leggete ora, è frutto di quei pensieri, di quelle discussioni, di quel lavoro. Abbiamo piano piano capito che il punto di rottura andava portato più avanti. Che c’era bisogno di un giornale completamente libero, capace di ridiscutere tutto, capace di rimettere in moto una capacità di pensiero della sinistra. Un giornale che abbattesse i tabù, i miti. E tra questi miti anche il mito che la verità non esiste. Non è vero che non esiste, è vero solo che non conviene a nessuno, cioè non conviene agli interessi organizzati, alle lobby, ai partiti.
Abbiamo provato a fare quel giornale cambiando Liberazione, ma a un certo punto il partito ha detto basta. Non gli interessava più. Per questo abbiamo fondato L’Altro. Io credo che a Ivan sarebbe piaciuto l’Altro, anche se avrebbe protestato, e strepitato, perché non è abbastanza ambientalista.
Ho scritto questo articolo, come vedete, stando ai fatti, senza commuovermi e senza spingervi alla commozione. Eppure, dopo un anno, ve lo giuro, ogni volta che ripenso a Ivan mi si stringe la gola, mi viene da piangere. Mi commuovo ogni volta, perché mi torna in mente quel suo sorriso un po’ sghimbescio che davvero era irresistibile. Chi lo ha conosciuto lo sa che è così. Mi torna in mente la sua arroganza e la sua bontà.
E penso a quante cose non gli ho detto, a quante sono rimaste sottintese, a tutto quello che vorrei discutere con lui.
Piero Sansonetti (l’Altro, 19 luglio 2009)
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